In Siria e in Iraq, contro una violenza del genere

23 Aprile 2020, 12:47

“Stare a casa” è lo slogan che accompagna dal primo giorno l’emergenza mondiale determinata dalla diffusione del virus Covid-19. Alla base, l’idea che l’unico luogo sicuro siano le mura domestiche, per evitare il contatto con altre persone, rallentando così la diffusione del contagio.

Ma cosa succede se quelle quattro mura sicure non sono, perché è proprio al loro interno che si consumano violenze e abusi? E cosa succede se quelle quattro mura non esistono più, perché sono state distrutte da guerre e conflitti, si è vissuta la fuga e lo sfollamento, e dunque oggi “casa” è una tenda in un campo profughi sovrappopolato?

E’ questa la condizione che si trovano a vivere milioni di donne nel mondo, e in particolare in quei paesi in cui noi di Un Ponte Per operiamo da anni. Condizioni che abbiamo imparato a conoscere molto bene, e nelle quali siamo impegnate/i ogni giorno.

Le guerre, i conflitti, le condizioni di precarietà e povertà diffusa hanno sulle donne un peso maggiore. Se vittime di queste condizioni sono tutte e tutti, il prezzo che pagano le donne sulla propria pelle è spesso doppio. Con la Pandemia, che costringe a casa le donne, il rischio di essere esposte alla violenza aumenta.

Accade in Italia, dove dall’inizio del lockdown le richieste di aiuto ai centri anti-violenza sono aumentate del 75%, e accade in luoghi di guerra, dove la relazione tra militarizzazione, conflitti e aumento della violenza di genere è un dato confermato ormai da tempo.

Per questo, parte integrante del nostro lavoro in questi territori è il contrasto alla violenza, attraverso il lavoro con le comunità per ridurne la diffusione, la gestione diretta dei casi, il sostegno psicologico alle donne sopravvissute e la loro protezione.

In Siria la violenza di genere è estremamente diffusa e non denunciata, e continua a rappresentare un problema. La maggior parte dei casi viene classificato come “non denunciato”. Questo perché raramente le violenze subite vengono discusse liberamente anche tra le sopravvissute – spesso appartenenti alla medesima famiglia – per paura che la notizia, fuoriuscita dal contesto familiare, possa creare uno stigma sociale. Una situazione che peggiora nei campi per persone rifugiate e sfollate, dove le donne denunciano il rischio di subire molestie e violenze impunite tanto negli spazi privati quanto in quelli pubblici, come i bagni condivisi.

Nel nord est della Siria, dove lavoriamo dal 2015 alla ricostruzione del sistema sanitario, svolgiamo analisi specifiche e costanti sulla diffusione della violenza di genere, ed in particolare a Raqqa e nei principali campi profughi in cui operiamo.

A Raqqa abbiamo rilevato un meccanismo di incremento della violenza contro le donne in seguito all’ultimo conflitto dell’ottobre 2019, e come principale conseguenza delle restrizioni economiche e dello stress psicologico derivato. Tra gli effetti maggiori, l’aumento della “Intimate Partner Violence (IPV)”, commessa quindi da mariti o fidanzati. A questo, si aggiunge la diffusione di matrimoni precoci.

Abbiamo quindi condotto una serie di attività di prevenzione e sensibilizzazione presso le comunità dopo aver formato il nostro staff, con cui abbiamo raggiunto oltre 100.000 persone. Ogni mese, almeno 500 tra donne e ragazze hanno accesso ad informazioni sui loro diritti e sulla prevenzione della violenza tramite le campagne che conduciamo e i servizi di sostegno psicologico che assicuriamo in collaborazione con le Case delle Donne locali (Malajin). Stiamo mappando i servizi di protezione esistenti, per poter dare il nostro contributo a rafforzarli.

Anche in Iraq la violenza di genere costituisce ad oggi un gravissimo problema, specialmente per giovani e adolescenti.

Negli anni più recenti si è assistito ad un aumento di quelli che vengono comunemente definiti “delitti d’onore” e dei casi di violenza domestica (3.400 quelli denunciati solo nel 2017). A questo si aggiunge l’escalation di violenze contro le donne causata dalla lunga occupazione del territorio da parte di Daesh, che ha imposto un sistema fortemente repressivo e codici comportamentali rigidissimi, in modo particolare per le donne. Inoltre, molte politiche, giornaliste, dottoresse e attiviste vengono prese di mira e sono divenute negli anni vittime di violenze e uccisioni, nella maggior parte dei casi rimasti impuniti.

Un altro grave problema che affligge la popolazione femminile irachena è il fenomeno dei matrimoni forzati e precoci: si stima che circa il 24% della popolazione femminile irachena contragga matrimonio prima dei 18 anni. Recentemente è divenuta spesso questo l’unica modalità di sopravvivenza di molte giovani donne che, vivendo in contesti familiari poverissimi, vedono come unica via d’uscita matrimoni con uomini ricchi ma anziani.

Anche in Iraq conduciamo regolarmente analisi specifiche con focus group e interviste per monitorare la diffusione dei livelli di violenza contro le donne. Abbiamo rilevato che tanto la violenza di genere quanto la “Intimate partner violence” continuano ad essere molto diffuse, sono in gran parte normalizzate, e mancano ancora servizi di sostegno alle donne sopravvissute.

Per questo, nel paese portiamo avanti servizi di protezione per la donne sopravvissute o a rischio di violenza, e in particolare a Mosul, ex roccaforte di Daesh. Tentiamo di rispondere ai bisogni della popolazione femminile con misure salva-vita, gestendo casi di violenza e garantendo sostegno psicologico per oltre 15.000 donne ogni anno. Nel 2019 sono state oltre 1.000 le donne e ragazze che siamo riuscite/i a sostenere nel loro percorso di uscita dalla violenza solo nella città di Mosul.

A livello di comunità, abbiamo tentato di riattivare un sistema in grado di prevenire, mitigare e rispondere alla violenza di genere, e svolgiamo regolarmente attività di sensibilizzazione. Ma, soprattutto, sosteniamo 6 centri anti-violenza.

 I Centri assicurano spazi sicuri per donne e ragazze sia sopravvissute che a rischio di violenza, assicurano servizi di risposta e di prevenzione e misure di sicurezza immediata, come le linee telefoniche attive h24. Esiste nei centri un meccanismo comprensivo di gestione dei casi, che spazia dal referral presso gli ospedali all’assistenza legale, al sostegno psicologico, alla salute. Ci siamo concentrate/i soprattutto sull’accesso alle cure post-stupro, ancora fortemente stigmatizzate e carenti dal punto di vista del personale formato.

Il nostro obiettivo adesso è aprire un centro anche a Mosul, che possa essere rifugio sicuro per chi è in fuga dalla violenza.

Riusciamo a portare avanti questo prezioso lavoro grazie alle donne dei nostri team locali, che fanno di tutto per sostenere altre donne, doppiamente colpite dalla guerra e dalla violenza.

Ecco perché abbiamo deciso di dedicare anche quest’anno il nostro 5×1000 alle donne. Soprattutto alla luce di questa nuova emergenza globale, che costringe tutte e tutti a stare a casa. Un luogo che, per moltissime donne nel mondo, e tutt’altro che uno spazio sicuro.

Una firma che destini il 5×1000 a Un Ponte Per non ha alcun costo. Per noi, però, ha un valore di 30 euro.

Con 30 euro, garantiamo il funzionamento di un centro anti-violenza in Iraq per una settimana.  Con una firma, lo fate voi.

Inserisci nella tua dichiarazione dei redditi il Codice Fiscale 96232290583.